01 Set Raggi x: non solo ossa rotte
Bentornati con il secondo articolo della mia rubrica MedIm. Oggi parliamo di raggi x, forse la più famosa tecnica di imaging medico. Dopo una breve parentesi storica, viene descritto il principio di funzionamento e il modo in cui le immagini vengono ottenute. Questa parte è un pochino tecnica, ma spero non troppo noiosa (niente paura comunque: è molto molto breve). Infine, parlerò di radiazioni e rischi a loro associati; forse, dopo la lettura, saranno più chiari a tutti i reali pericoli che un paziente corre quando si sottopone ad un esame radiografico. Buona lettura!
I raggi x sono stati scoperti da Wilhelm Conrad Roentgen (premio Nobel per la fisica) nel 1895. Un sacco di tempo fa. Egli dedicò la sua intera vita alla sua ricerca, che decretò anche la sua morte dovuta ad un carcinoma formatosi probabilmente a causa dell’esposizione prolungata alle radiazioni. La scoperta avvenne quasi per caso, con Roentgen che, passando la mano attraverso il fascio di questi raggi dalle proprietà sconosciute, si accorse di poter osservare l’ombra delle ossa delle proprie dita proiettata su un foglio di carta. In seguito capì che utilizzando una lastra fotografica era possibile fissare le immagini ottenute, e conservarle nel tempo. Dunque, a Roentgen fu chiara una cosa: servivano 3 sistemi per ottenere un’immagine a raggi x: un tubo radiogeno per emetterli, un oggetto da studiare (nel nostro caso, il paziente) e un rivelatore per ottenere l’immagine.
Molto brevemente, nel tubo a raggi x vi sono due filamenti metallici. Riscaldandone uno, esso emette elettroni che, se accelerati, vanno a collidere contro l’altro metallo. Il risultato dell’impatto genera (oltre a molto altro calore) i raggi x, che vengono filtrati, deviati e collimati verso il paziente. Attraversando il paziente, ogni raggio verrà attenuato in funzione dello spessore e della densità dei tessuti (tessuti molli come pelle e muscoli attenuano poco, tessuti densi come le ossa attenuano molto) ed in seguito rilevato da un detector (nel caso tradizionale, una pellicola che converte i valori dei raggi x attenuati in tonalità di grigio). C’è poi la variante 3-D, detta Tomografia Computerizzata (CT), in cui molte proiezioni 2-D vengono acquisite secondo diversi angoli del corpo del paziente e algoritmi ricostruttivi creano le immagini in tre dimensioni.
Fermandoci subito con i dettagli tecnici, cerchiamo di affrontare un argomento un po’ più interessante: cosa possiamo realmente vedere con i raggi x? Come detto nel primo articolo della presente rubrica, ogni tecnica di imaging ha pregi e difetti e, in linea generale, vi saranno sempre oggetti e strutture che non sarà in grado di individuare. Per quanto riguarda i raggi x, che un tessuto sia o meno visibile non dipende in senso stretto dal tessuto stesso e dalle sue proprietà, ma dalla differenza di attenuazione rispetto ai tessuti circostanti (o sovrastanti). Facciamo riferimento all’esempio di una CT al cervello. Grossolanamente possiamo affermare che la materia cerebrale è divisa in due grandi categorie, la materia bianca e la materia grigia, che hanno differenti valori di attenuazione dei raggi x. Inoltre, questi due materiali (così come tutti i tessuti del corpo umano) hanno un coefficiente di attenuazione che non è costante, bensì varia in funzione dell’energia erogata dal tubo a raggi x. Dunque, per poterli chiaramente distinguere occorre semplicemente impostare l’energia del fascio a raggi x in modo tale che la differenza dei coefficienti di attenuazione delle due materie cerebrali sia massima (ovvero, massimizzare il contrasto). Inoltre, trattandosi di due tessuti molli (e dunque con coefficienti di attenuazione molto più bassi rispetto a tessuti duri come le ossa) sarebbe sufficiente erogare un’energia bassa per permettere ai raggi x di attraversarli e quindi formare l’immagine. Magari fosse così semplice. C’è almeno un’altra struttura di cui si deve tenere in conto in una CT al cervello: la scatola cranica. Questo strato osseo che protegge il nostro cervello ha un coefficiente di attenuazione di molto superiore a quello delle due materie cerebrali, e dunque occorre un’energia di raggi x molto più alta per poterla attraversare. Ciò ci costringe ad utilizzare un’energia assai superiore che non massimizza il contrasto tra le due materie cerebrali, rendendo difficile la loro esatta individuazione. Questo è il maggiore limite della tecnica: alcune strutture del corpo umano non sono facilmente distinguibili a causa di vincoli anatomici propri dell’essere umano. Detto ciò, i raggi x possiedono comunque un enorme potenziale nella diagnostica per immagini. Possiamo osservare l’intero addome e distinguere i diversi organi del sistema digerente, il torace con cuore e polmoni, il cervello, il seno e anche alcuni vasi sanguigni (in quest’ultimo caso occorre iniettare un mezzo di contrasto che renda più “pesante” il sangue).
Terminiamo l’articolo con un argomento che credo sia di interesse comune: ma i raggi x sono pericolosi? Indubbiamente lo sono, in quanto radiazioni ionizzanti. Questo tipo di radiazione possiede un’energia sufficiente a rompere i legami molecolari nelle cellule del corpo umano, rendendo tali molecole attive, ovvero con una forte tendenza a legarsi con altri atomi o molecole all’interno delle cellule stesse. Talvolta i composti che originano dai nuovi legami chimici formatisi sono potenzialmente dannosi per le cellule e, in rari casi, possono estendersi all’intero organo interessato.
In parole povere, esporre il paziente ai raggi x porta con sé una probabilità di creare danni all’organismo. Ma niente panico, il rischio è, nella maggior parte dei casi, più basso di quanto si creda. Deve essere reso noto al lettore che noi tutti siamo soggetti ad una radiazione continua che proviene dal mondo che ci circonda (raggi solari, elementi instabili nella crosta terrestre e così via). Ovviamente, a meno di vivere a due passi da un sito dove è avvenuta un’esplosione nucleare, la radiazione media annua data dall’ambiente che ci circonda è molto bassa. Dunque, tenendo come riferimento questa dose (efficace) annua data dall’ambiente, vediamo quanto è realmente pericoloso esporsi ai raggi x. Tanto per fare un esempio, una radiografia planare (cioè in due dimensioni) al torace comporta una dose di radiazioni per il paziente di circa 20 volte inferiore alla dose ambientale annua. Ciò significa che esporsi ai raggi x corrisponde, in questo caso, a circa 19 giorni di esposizione ambientale. Nell’arco di un’intera vita, direi che non è molto. Ovviamente, diverse applicazioni dei raggi x portano con sé diversi livelli di dose di radiazione: una mammografia con due viste (lo standard nella pratica clinica per lo screening al seno) equivale a circa 50 giorni di radiazione ambientale, una CT ai polmoni a 200 giorni, una CT “total body” a ben 3 anni. Dunque, la dose di radiazioni (e il rischio che ne deriva) dipende dal tipo di esame effettuato. Ecco perché (lasciando perdere i costi) alcuni esami vengono eseguiti di routine (come le mammografie o le radiografie al torace), mentre altri (come la CT “total body”) solo in caso di reale necessità.
Trovo sia giusto informare le persone su questi concetti. Ogni tanto mi sento chiedere dai pazienti il rischio legato alle radiazioni in ambito medico. La risposta, come abbiamo visto, non può essere unica, in quanto dipende dal tipo di esame effettuato. In ogni caso, il rischio derivante dai raggi x è sempre giustificato dalla necessità per un paziente di sottoporsi ad uno specifico esame. In altre parole, non verranno mai prescritte CT “total body” senza un reale motivo.
Prima di terminare, voglio darvi un ultimo numero che riguarda le mammografie. Come tutti sanno, oltre una certa età le mammografie vengono eseguite di routine per lo screening al seno. Stando alle ultime statistiche americane, solo 3 donne su 100000 sviluppano un cancro al seno a causa delle radiazioni x assorbite durante l’esame. La probabilità è quindi lo 0.003 per cento. Ora, a noi ingegneri insegnano che il rischio è “la gravità di un evento negativo in relazione alla probabilità che quell’evento possa accadere”. Se consideriamo che la probabilità di morire in un incidente d’auto è addirittura superiore (fonte: università di Oxford), direi che il rischio di sviluppare un cancro a seguito di una mammografia è piuttosto basso. Quindi, mi permetto di dare un piccolo consiglio personale alle donne sopra i 50: non saltate mai le mammografie; lo screening porta ad una diagnosi precoce in caso di tumore, e può davvero fare la differenza.
Al prossimo mese con un altro articolo!
Marco Caballo
Monica Casalegno
Posted at 10:27h, 01 SettembreGrandissimo Marco!!! Complimenti!! Sei stato chiarissimo ed esauriente!!
Marco Caballo
Posted at 11:21h, 01 SettembreGrazie Monica gentilissima come sempre 🙂
Giusi
Posted at 13:07h, 01 SettembreMarco, articolo davvero bello! Complimenti!
Connubio di
Passione per il proprio lavoro e Professionalità.
Marco Caballo
Posted at 13:09h, 01 SettembreGrazie mille Giusi!!!